Intervista rilasciata dal fondatore Maroso Francesco Antonio e contenuta nel libro TRAGUARDI pubblicato in occasione dei 25 anni della GS MAROSO.
La mia avventura continua nello sport e nel lavoro
Colloquio con Francesco Antonio Maroso
Via De Gasperi 13. Un pezzetto di Veneto che esemplifica la storia di questa regione, dal dopoguerra in poi. Case rurali e campi da coltivare, un panorama via via trasformatosi negli anni, vedendo sorgere, in un’area che rimane comunque di campagna, una viabilità superiore ed alcuni moderni stabilimenti produttivi. Via De Gasperi 13 è da sempre tutto, per Francesco Antonio Maroso. È casa, è famiglia, è l’aggancio con la terra, è la “stanza dei bottoni” dell’attività imprenditoriale, è la culla degli affetti e quella del lavoro, dello spirito imprenditoriale. Ma è anche la “tana” della passione ciclistica, il luogo operativo da dove partono gli input per la vita del sodalizio sportivo. Via De Gasperi 13, nella zona sud di Pianezze. «Ho le radici da sempre in questo posto» racconta Francesco Antonio Maroso. Sono nato qui nel ’48, nella vecchia casa dove ancora vivo. I miei genitori, Bortolo e Maria facevano i mezzadri. C’era una campagna estesa, circa 15 ettari del conte Chilesotti di Bassano. E ci vivevano i nuclei familiari patriarcali dei Maroso, Rossi, Valerio Barausse, e i Cortese, i Pozza, i Carollo, i Soster da Lusiana che, come molti altri, erano arrivati qui da fuori per lavorare la terra. Un’unica grande fattoria, una borgata con annessi campi, stalle, fienili, corti comuni. Si viveva e si lavorava in una piccola comunità, che negli anni Cinquanta e Sessanta però perse alcuni dei protagonisti. Alcune di queste famiglie infatti emigrarono in cerca di lavoro verso Vercelli e Varese. abbandonando l’agricoltura per cercare miglior benessere nell’industria.
E i Maroso invece?
Quelli rimasero. E in quegli anni del dopoguerra la proprietà iniziò a cedere le campagne. Si facevano i frazionamenti, si spezzettava la proprietà. Papà Bortolo e mio zio Girolamo acquisirono proprio questa parte qua: i campi con sopra i buoi, gli aratri, le attrezzature. Ma mio padre cominciò anche a lavorare come operaio nell’edilizia, poi nelle fonderie, infine da Bussandri. Eravamo quattro fratelli, io ero venuto dopo Giuseppe mentre ho visto nascere Marilice e Giampaolo.
Fu un’infanzia spensierata?
Tempi duri. Noi ragazzini avevamo la fortuna di crescere tra le coltivazioni e gli animali, ma dopo la scuola dovevamo fare le nostre ore di lavoro agricolo. E dare una mano per arrotondare i magri bilanci familiari. La scuola elementare era a a San Vito di Marostica e raccoglieva tutti i bambini della zona di Fosse e di Pianezze sud. In classe eravamo una dozzina e dalla prima alla quinta ebbi la maestra Poloni. Poi il pomeriggio bisognava lavorare nei campi, anche dagli zii materni. Il momento, diciamo, di svago era la domenica. Ci si ritrovava tutti i ragazzi della zona e si andava tutti insieme, con una camminata di tre chilometri, a messa a Pianezze San Lorenzo. La parrocchiale di Marostica era altrettanto distante, ma noi ci sentivamo di Pianezze, perciò salivamo in paese; anche il catechismo lo frequentavamo a Pianezze. Al massimo gli adulti ci davano uno strappo in bici fino all’inizio della salita.
Il ricordo più vivo?
Una gioia e una delusione insieme legate alla mia prima bicicletta. Avrò avuto dodici anni quando cominciai a fare musina. A quattordici anni riuscii a comprarmela. Ricordo come se fosse ora: andai da Carlesso, a Marostica, che era il concessionario della Berga, e scelsi un’ incredibile bici Swel color arancio, con il cambio e quattro rapporti dietro. Era una cannonata ma purtroppo durò poco. A Marostica d’estate arrivò Campanile Sera, il programma televisivo di Enzo Tortora che era una specie di antenato di Giochi senza frontiere. Quella sera andammo in piazza Castello come spettatori e mentre guardavo lo spettacolo qualcuno mi soffiò la bici. Sparirono la mia e quella di mia zia. Con tutti i sacrifici che avevo fatto! Tornai a casa a piedi e in lacrime. Poi rimasi un bel pezzo senza una bicicletta mia.
Quando iniziò a lavorare?
Molto presto. Studiare mi piaceva ma non erano tempi, quelli. Bisognava contribuire al reddito familiare, perciò tanto lavoro agricolo, ma per fortuna frequentavo anche la scuola di arti e mestieri di Marostica come meccanico aggiustatore. E lì il prof. Rossi mi chiese se volevo andare a lavorare alla St. Moritz di Artuso, industria del settore gomma. Così prima dei 15 anni entrai in fabbrica e fu un’esperienza fondamentale, perché operavo nel reparto officina e manutenzione delle macchine utensili, quindi a contatto con l’impiantistica industriale. Divenni l’aiutante di Bepi Valerio e Marco Smaniotto, i più bravi idraulici di Marostica, si lavorava su linee di vapore alta e bassa pressione, pompe di ogni genere. Insomma fu una vera scuola per me.
Quanto durò quell’esperienza?
Alcuni anni. non tantissimi. Poi feci il militare e dopo il congedo, di cui ricordo ancora la data, il 9 maggio del ’69, mi misi in proprio. A vent’anni e poco più cominciai subito a fare l’impiantista. Curavo la manutenzione di alcune caldaiette qui in zona, ma presto la zona di maggior lavoro diventò quella di Montecchio Precalcino e Dueville.
E come mai?
Se glielo racconto non ci crede. lo capivo che dovevo ampliare il mio “mercato”, e il raggio d’azione per trovare nuovi committenti. In casa c’era la Fiat 1100 L, quella ancora con le code, un giorno le diedi una lustrata e feci un giro. Al ponte sull’Astico di Sandrigo vidi fermo il camion di un’impresa edile. Andai a parlare con l’autista, chiedendo se per caso avessero bisogno di un idraulico. Quello era il fratello di un impresario di Montecchio Precalcino, Giuseppe Baio, che guarda caso proprio in quel periodo non era soddisfatto del suo idraulico. Che storia! Così dalla sera alla mattina mi misi a lavorare per lui, che tra Montecchio e Dueville stava realizzando palazzine e abitazioni. C’era un mucchio di lavoro, si partiva con l’Ape e la pignatea la mattina e si tornava a casa a sera avanzata.. Poi da cosa nacque cosa, arrivò l’incarico della Provincia per le manutenzioni nelle scuole, e dell’Ulss per la lavanderia dell’ospedale di Bassano…
Come si sviluppò l’ attività?
Nel ’70, a 22 anni, avevo già i primi dipendenti. Con l’incipiente boom edilizio, c’era una richiesta enorme di impiantistica termoidraulica. Invece negli anni Ottanta l’azienda cominciò anche ad allargarsi all’impiantistica elettrica: il gasolio era passato da 17 a 700 lire al litro e per economizzare i consumi si installavano le prime centraline elettriche di controllo degli impianti idraulici, si conoscevano le prime tecnologie elettriche. Anche quello fu un settore di grande sviluppo aziendale. Ma guardi che in quegli stessi anni, oltre all’azienda, decollò anche la famiglia.
Velocissimo anche in quel caso?
Sì, perché Maria Assunta, di Nove, l’ho sposata ancora nel ’71. Nel ’72 è arrivato Simone, e poi nel ’74 Ivan. Mia moglie è stata poi sempre un riferimento in azienda, e per lunghi anni ha guidato l’azienda del Gruppo specializzata nella carpenteria collaudata. Ma soprattutto è da sempre il cardine della famiglia. Ha lasciato invece a noi le responsabilità del Gruppo sportivo, ma è stata sempre disponibile per organizzare i momenti conviviali e le improvvisate tra amici del pedale.
Intanto era nato il gruppo sportivo.
Sì, quello sorse nel ‘ 74. L’ idea era scoccata a una cena della classe di Pianezze tra noi tre soci fondatori, cioè Flavio Scalcon, Bortolo Nodari e il sottoscritto. lo non ero un ciclista, e avevo anche poco tempo per andare in bici, ma mi sono fatto coinvolgere. E quell’anno ci fu la nostra prima uscita, alla “Pedalata delle rose” a Schio. Con Toniazzo, Sacchetto, Luisetto, Polo, ci iscrivemmo alla manifestazione come “Gruppo dei cugini”. per poter concorrere a un premio. Ricordo che mi vennero addosso e che arrivai al traguardo con la ruota davanti mezza scassata. Comunque ci diedero una coppetta, la prima della nostra storia, che era alta dieci centimetri ma a noi sembrava un trofeo di prima grandezza. Da quei primi passi nacque il Gruppo Sportivo Maroso. L’anno dopo ci fu la formalizzazione dello Statuto, nel ’76 l’affiliazione alla Fci con il numero di società 309.
Una maglia biancazzurra fin dagli inizi, con il nome aziendale.
L’azzurro era il mio colore preferito e la fascia bianca si impose per far risaltare la scritta. Da sempre ho voluto mantenere come sponsor solo la mia azienda, per la scelta di fondo dell’unità d’azione tra impresa e iniziativa sportiva. Le nostre maglie poi sono state sempre molto eleganti e pulite, senza tanti fronzoli o marchi appiccicati. Uno stile inconfondibile.
Cos’era quello scudetto che si vede sulle vecchie maglie?
La prima sede ci fu concessa a titolo gratuito dal gruppo culturale di Pianezze, il Centro Studi G. Lorenzon (intitolato a un monsignore di Pianezze) con presidente Giovanni Munari e Luciano Chemello come segretario. Quest’ultimo poi ci ha dato sempre una mano importante, era un socio affezionato ma di bicicletta non voleva saperne però come capacità organizzative e amministrative ne aveva in quantità, il suo ruolo era fondamentale. Si decise allora, per ringraziare della cortesia e promuovere questo sodalizio culturale, di inserire il loro simbolo sulla nostra maglia.
Quali sono le persone che le piace ricordare?
Beh, sono davvero tante. Per citarne qualcuna, sicuramente don Giovanni Rigoni, ogni giovedì sera ci veniva a trovare, faceva gruppo con le sue battute e voleva sapere tutto della nostra attività. E poi il dott. Vittorio Campi, nostro medico sociale, che partecipava e ci incoraggiava. Ricordo l’appoggio dei sindaci Battista Bertollo, Graziano Prandina. Giovanni Rigo, anche di don Gino Pasinato e dell’on. Giuseppe Zuech. Così come ci hanno dato sostegno importante Raffaele Carlesso della Fci e il presidente provinciale del Coni, Vittorio Morini. Ma ce ne sarebbe, di gente da nominare… Quanto al Gruppo Sportivo certamente bisogna citare Franco Toniazzo, Flavio Scalcon, Giancarlo Cogo, Pio Sacchetto, Flavio Battistello per la capacità di organizzare corse, proporre e gestire iniziative a favore dell’attività di gruppo e dello sport in generale. E poi tutti i giovani che stanno ridando vigore al nostro sodalizio.
Quanti eravate?
Una quindicina, anche qualcuno di più. Si faceva rigorosamente cicloturismo, cioè pedalate amatoriali. Tassativamente bisognava uscire ogni domenica, mentre ogni giovedì sera ci si trovava alla Casa della gioventù per stilare i programmi e gli itinerari. In quegli anni era molto in voga il ciclismo, come peraltro il podismo, e il calendario della Fci era fitto di appuntamenti, in tutta Italia. Spesso si partiva la mattina presto col pullman, con tutte le famiglie al seguito, per le più disparate mete. E si cercava di fare più numero possibile perché si acquisivano punteggi per le premiazioni di fine anno. Presto anche la nostra “Pedalada dei colli” entrò in quel calendario e nell’82 a Pianezze organizzammo il raduno regionale: arrivarono ben 1200 partecipanti, anche da fuori Veneto. Il bello del G.S. Maroso comunque era il forte spirito di gruppo anche al di fuori delle gite; per molti anni, ad esempio, la famosa gara sociale “Lui e Ici”, rigorosamente un fatto interno al sodalizio, con mariti e mogli in sella, fu un appuntamento divertente che ci vedeva tutti coinvolti.
La gita cicloturistica rimasta più impressa?
Quella del ’76 in Friuli, dopo il terremoto. Un giro nella zona di San Daniele che ci portò proprio nelle zone devastate. Fu davvero impressionante.
Grazie al Gruppo sportivo lei ha conosciuto molti personaggi dello sport. Ricordi, aneddoti?
Per la simpatia mi viene spontaneo ricordare Gabriella Dorio, dopo l’Olimpiade vinta a Los Angeles. Quella serata a Pianezze mi è rimasta in mente più di altre trascorse con dei miti del pedale. Quanto al ciclismo, indimenticabile il ct azzurro Alfredo Martini che si dimostrò così disponibile a venire nella piccola Pianezze a ricevere le “chiavi d’oro”, lui che di impegni ne aveva tanti, ci disse che considerava quel premio un ambito traguardo, e questo ci riempì di orgoglio. Di Damiano Cunego ho apprezzato l’umiltà del campione, la capacità di farti sentire che siamo tutti dello stesso pianeta. Dall’incontro con Giovanni Battaglin mi è rimasto un piccolo rammarico. Quell’anno aveva vinto Giro e Vuelta, ci fu una grande festa a Marostica, ma non sono riuscito a intavolare un vero dialogo nonostante sia uno della mia terra, perché così riservato.
Tra lavoro e sport si infilò pure l’impegno sociopolitico.
Tra il ’75 e l’80 ebbi incarichi nell’Associazione Artigiani come presidente di categoria e come assessore mandamentale. Nel decennio 1985-1995 invece sono stato nell’ amministrazione comunale di Pianezze, con il sindaco Giovanni Rigo, come assessore allo sport e ai lavori pubblici. Il momento più toccante fu quando partecipai, come delegato del sindaco, alla cerimonia inaugurale dei mondiali di ciclismo nel 1985, al Mercante di Bassano.
Com’era lo sport a Pianezze in quel periodo?
Molto calcio e poi ciclismo, con il nostro gruppo sportivo, un po’ ginnastica motoria in palestra. Ma il football aveva la sua importanza; più o meno tutti i figli di Pianezze ci passavano, e molta gente assisteva alle partite. In quegli anni l’amministrazione comunale aveva anche acquisito il campo di gioco. Anche la mia azienda avviò una squadra amatoriale che per alcuni anni partecipò ai tornei estivi, coinvolgendo molte persone e molti entusiasmi. La Maroso insomma ha lasciato un segno anche nel calcio. Quanto alla bicicletta, il nostro gruppo riuscì a far entrare il ciclismo in modo ancor più decisivo, mandando avanti i nostri figli nell’agonismo giovanile. Era l’impulso più valido nel territorio di Pianezze da parecchi anni, e anche le nostre manifestazioni riempirono una lacuna che persisteva dagli anni ’70 quando si correva la gara del patrono. Anno dopo anno, nel ’92 si toccò il massimo storico con un’ottantina di atleti tesserati in tutte le categorie fino ai dilettanti assoluti e ai cicloamatori. Ma si entrava anche nella vita del paese, il Gruppo Maroso ormai era un qualcosa di fondamentale per Pianezze.
In che senso fondamentale?
Nel senso che c’era il coinvolgimento vero della comunità intorno alle attività ciclistiche e la cena di fine annata sportiva era un vero e proprio avvenimento, il mondo politico ci teneva ad esserci, molte personalità ci sono passate, così come tanti grandi campioni chiamati per le premiazioni.
E poi si è reso necessario chiudere un ciclo.
É normale. Il cicloturismo no, quello è continuato sempre imperterrito, è la nostra bandiera con le uscite di domenica da marzo ad ottobre. Ma con le squadre agonistiche, ad un certo punto, abbiamo deciso di dire basta. Il mondo del ciclismo stava perdendo la retta via. I media lo abbinavano sempre al tema del doping. Non sembrava più la cosa sana che conoscevamo e che noi abbiamo sempre portato avanti. Non volevamo farci sporcare da un’immagine collettiva a cui eravamo estranei. E poi c’era quella follia dei genitori che non riuscivamo più ad arginare, tutti avevano un figlio campione e pretendevano l’impossibile. Ed era difficile reperire tecnici ed accompagnatori. Ci siamo detti: è una dinamica che non sappiamo dominare, meglio staccare la spina. E abbiamo fatto bene.
Adesso siete pronti a ripartire?
La voglia c’è sempre stata e ora si può riprovare. Partendo dai figli dei figli. Il ciclismo ha avuto i suoi anni di decantazione, la gente ha capito tante cose ed è possibile ricominciare avendo come unico obiettivo lo sport come attività sana, capace di sviluppare le relazioni e la crescita educativa. Si sta facendo un lavoro con le scuole. C’è entusiasmo. L’epoca dei problemi è stata quella di assestamento dopo il matrimonio dei figli. Adesso anche loro riscoprono il ciclismo, ritornando all’antico.
Invece l’attività amatoriale, dopo 30 anni, è inossidabile.
Sì, come dicevo. Oggi il gruppo conta 45 cicloturisti, ad ogni uscita domenicale non siamo mai meno di 20-25. Nel frattempo è cambiato un mondo. La federazione non organizza più tante manifestazioni, perché il traffico è diventato un mostro che divora tutto e non esistono più le strade agibili di una volta. Ma noi le nostre 30-40 uscite l’anno ce le organizziamo da soli, 4 o 5 sono delle classiche e poi inventiamo itinerari nuovi.
Oltre alla bicicletta, quali sono le passioni di Francesco Maroso?
Nel passato ho fatto tennis a Sandrigo e sci alpino. Oggi l’hobby è dedicarmi alla terra, è uno svago e un relax seguire le viti e fare il vino.
E in azienda?
Il computer non ce l’ho, oggi si fa tutto con quello, ma ci sono Simone ed Ivan che hanno preso le redini. lo mi dedico alle pubbliche relazioni, ai rapporti con i clienti. Alla fine degli anni ’90 è stato difficile fare la scelta di non cedere l’impresa. In quel momento tutto gravava su di me e non mi pareva di essere in grado di reggere il peso, invece l’innesto dei figli e l’ottimismo hanno portato nuova linfa. Nel ’98 per fusione è nata la Maroso S.r.l., mettendo insieme le esperienze della Maroso artigiana, della Maroso Impianti e della lsmar Carpenteria collaudata. Abbiamo 25 persone che lavorano con noi, più vari appoggi esterni. Siamo una grande realtà nel settore, diciamo tra le prime dieci in provincia, e abbiamo dato tanto anche al territorio e all’economia: basta pensare che da qui sono nate altre 34 ditte impiantistiche, di ex dipendenti messisi in proprio.
Cosa vede se guarda all’orizzonte?
Che il settore emergente è la tecnologia, una nicchia importante che implica la formazione e l’aggiornamento continuo del personale. L’alta tecnologia penso sarà gran parte del nostro futuro. Ci sono state realizzazioni davvero importanti: autoclavi fino a 42 metri di lunghezza per l’industria petrolifera, macchinari per il marmo, sistemi per l’ industria del carbonio che sono stati testati e utilizzati nei laboratori del Cnr di Padova.
C’è qualcosa che le è mancato in questi 35 anni di lavoro?
Nel mio immaginario di imprenditore fattosi da sé, il condominio. Lo stabile con venti appartamenti che ti assicurava un reddito. Pensavo che dovesse essere il mio obiettivo, la garanzia della vecchiaia, invece l’azienda ha via via assorbito gli investimenti, nella sua crescita tumultuosa, e per me che ho sempre lavorato nel mattone, il sogno giovanile non si è mai concretizzato, per cui mi sembra che sia un tassello che non sono riuscito a porre.
Rifarebbe tutto quel che ha fatto?
Pensando alle soddisfazioni degli anni iniziali, alla voglia, alla quantità di lavoro, dico di sì. Guardando il mondo attuale, invece, ci sarebbe più da pensare. Credo che senza esperienza oggi partire sarebbe ben più complicato. I modelli sono cambiati tutti. Mi sento però protetto dai figli , dalla loro entrata in azienda facendo la gavetta in amministrazione e nei cantieri. Quanto allo sport, la risposta è sicuramente un sì: e oggi siamo pronti. Oltre a proseguire nel settore amatoriale, anche a rimettere in sella le nuove leve sempre guardando ai valori sportivi veri, cioè il dilettantismo, il divertimento, lo stare insieme. (intervista di Claudio Strati raccolta a Pienezze il 22 febbraio 2005)